GAETANO ORSOLINI

VITA

Gaetano Orsolini nacque a Montegiorgio ( Ascoli Piceno), graziosa cittadina situata a 415 metri sul livello del mare, il 7 marzo 1884.

Dai 12 ai 20 anni la sua formazione artistica si svolse nell’ambiente marchigiano; si applicò assiduamente allo studio delle Arti con i mezzi che gli erano concessi dalla magre risorse lavorando presso il padre, Pietro Orsolini.

Infatti il padre era un apprezzato scultore di pulpiti e di altari lignei. Eseguì il coro ligneo per la chiesa di Montegiorgio e possedeva una falegnameria nella quale il figlio iniziò a familiarizzare con lo scalpello, la sgorbia, il calcagnolo.

E l’andare intorno ad un altare, ad un pulpito costrinse il giovane al modello costruttivo dell’architettura.

Ebbe un primo incoraggiamento ottenendo il gran premio in una mostra d’arte regionale marchigiana, per un piccolo cofano scolpito in legno, onorificenza che gli permise di ottenere la modesta borsa di studio di £. 700 annue della Cassa di Risparmio di Fermo.

Recatosi a Firenze, frequentò la scuola libera del nudo. Di spirito indipendente e volitivo, attratto sempre più dall’ammirazione dei grandi maestri del Rinascimento e dei Greci, già convinto che solo un duro tirocinio d’esperienze personali può maturare l’artista, intensificò lo studio frequentando Gallerie d’Arte, esercitandosi per proprio conto a realizzazioni plastiche dei motivi dettatigli dalla fantasia.

Fu per merito di queste piccole opere spontanee che gli fu affidato l’incarico di eseguire un gruppo equestre al Generale Barrios della Repubblica dell’Ecuador,compiuto da solo con instancabile ardore.

In seguito a quest’opera fu invitato, verso il 1910, a Torino, dove rimase fino alla morte, a collaborare nello studio del grande poeta del bronzo e del marmo: Edoardo Rubino. Per oltre un decennio frequentò la bottega di questo insigne artista piemontese con interruzione della Grande Guerra.


Rimarrà in ogni suo lavoro quell’ondulamento aristocratico dei piani, quella delicata definizione delle ombre che poté notare in Rubino, aggiungendovi la nativa caratteristica marchigiana di quella sonorità architettonica importata nelle Marche dai Dori, avvalorata dagli Etruschi e rimasta sia in pittura che nelle sculture come un indice di monumentalità austera. In quel tempo l’arte piemontese e la scultura in modo particolare erano piuttosto indirizzate verso tendenze stilistiche umbertine e floreali, di gusto incerto. La Torino tra 800 e 900 era il vivaio della scultura: da Marocchetti a Tabacchi, da Vela a Calandra, a Rubino. La plastica ha dato a Torino due poesie indimenticabili: quella eroica di Davide Calandra e quella spirituale di Leonardo Bistolfi; dal monumento d’un soldato, Amedeo d’Aosta a quello d’un Santo, Don Bosco.

RICORDO DI ORSOLINI di Bartolomeo Gallo

Alla morte di Gaetano Orsolini, Bartolomeo Gallo, membro del Circolo degli Artisti di Torino, scrisse un profilo dell’insigne artista nella rivista d’arte e informazione CENTROPARETE di Torino nell’anno 1954.

Qui riportiamo la parte più significativa:

" Con la morte di Gaetano Orsolini il Circolo degli Artisti perde un’altra delle figure più eminenti di quella ormai esigua pattuglia di valorosi artisti anziani che tanto contribuirono a fare illustre ed onorato il nome del nostro sodalizio.

Ma la statura artistica di questo nobile scultore era tanto elevata che non è soltanto il nostro Circolo a subire una dolorosissima perdita: è tutta l’arte piemontese ed italiana a soffrirne. Orsolini era uno di quegli uomini di animo delicato che sembrano porre ogni loro studio nel tenersi in disparte, nel non dare nell’occhio, nell’operare modestamente e silenziosamente. Tuttavia, le sue opere parlano per lui un linguaggio chiaro.

Terminiamo con un voto: quello di poter presto vedere una degna celebrazione di questo autentico maestro in sede adeguata, con una grande mostra riassuntiva da tenere in occasione di una delle prossime e maggiori rassegne d’arte italiana: vale a dire una sala alla Biennale di Venezia del ’56, quella Biennale dove egli espose ripetutamente: nel 1926 con la " schiava", ora al museo di Napoli; nel 1928 con " Vita novella" e nel 1930 con " Il Seminatore " ed appare pertanto come l’ambiente più idoneo per una mostra postuma sul piano nazionale. Dobbiamo adoperarci fin d’ora affinché questo voto possa tradursi in realtà e valga a collocare definitivamente Gaetano Orsolini al giusto posto che gli compete nella storia dell’arte italiana" .

 

OPERE

Le opere di Orsolini sono molte ed egregie: mai banali, né facili, né manierate.

Delle sue opere si sono interessati giornali e riviste d’Arte, fra i quali l’Enciclopedia delle Moderne Arti Decorative", nel volume " L’oreficeria", della Casa Editrice di Milano.

Le sue opere principali sono vari monumenti assegnatigli per concorso, fra i quali vanno ricordati i monumenti ai caduti, sparsi nelle varie città italiane: Portogruaro, Ascoli Piceno, Tenda, Intra, Cuorgnè, Montegiorgio.


" IL TRIONFALE RITORNO" ( Alessandria)

Riprende il tema di Portogruaro del 1926/27.


E’ un insieme gigantesco in cui si vede un plinto di metri 7,30 ed un gruppo bronzeo di metri 6,70. Orsolini deve avere a lungo vissuto le bellezze plastiche sia del Colleoni che del Gattamelata: particolarmente nel cavallo c’è l’ammirata enfasi di quegli esemplari. Cavallo e cavaliere si sentono fusi, così architettonicamente fusi da lasciare in chi contempla un ricordo di bellezza virile e magnifica.

"LA VITTORIA" (Intra NO)

E’ stata concepita come faro del Lago Maggiore. E’ un possente sviluppo di quasi 6 metri di altezza. Si notano riflessi greci, simili alle ali arcaiche condotti sul ritmo della jonica "Hera di Samos", visibile al Louvre. Il motivo delle mani levate in alto a lanciare sulle acque la corona sacra agli eroi è sfruttato abilmente come pensile sostegno del faro che si irradia sul Lago. Tutta la persona, dal volto al piede, è chiusa in un ritmico gesto d’offerta, di premio ispirata al lancio della corona sul mare di Delo, nell’annuale cerimonia religiosa degli Ateniesi.

PORTA MAGGIORE DELL’UNIVERSITA’ ( Padova)


Nel 1924 gli viene affidata a ricordo dei 191 studenti dell’Ateneo caduti nella guerra 1915-18, l’esecuzione della Porta Maggiore dell’Università.

Eseguita col bronzo dei cannoni presi al nemico durante la prima guerra mondiale, è un’opera monumentale di ben 7 metri di altezza divisa in due ante, in cui, con un gesto donatelliano, emergono due giovani eroi loricati. L’uno rappresentante il " diritto", il " pensiero giuridico", l’altro " L’amor di Patria ", " L’amore vittorioso"; ambedue reggono uno stendardo con incisi i nomi dei caduti e sopra le scritte: "PRO IURE" e " PRO PATRIA".

Nella rosta, pure in bronzo, si trova la figura di Minerva seduta, la quale tiene nella destra la spada e nella sinistra la vittoria alata.

Particolari di buon gusto sono gli emblemi della Facoltà usufruendo delle teste di chiodo che già aveva con altri temi disposto il Ghiberti nelle sue porte fiorentine.


Gli esempi citati dicono che si è di fronte ad un grande scultore statuario, ricco di senso monumentale ed architettonico. Tuttavia il vero e più autentico Orsolini è quello dei BRONZETTI, di tale squisita concezione fattura da collocare il loro creatore a singolare altezza. Sono piccoli bronzi soffusi di grazia, di eleganza, spesso di humor; in essi l’artista metteva tutto il suo amore per la bella scultura, per la linea purissima, li colmava di vibrazioni e di vita. Orsolini era modesto, forse troppo modesto e timido; a stento si poteva indurlo ad esporre qualcuno di questi pezzi bellissimi.

Di straordinaria bellezza si possono ricordare: il " Gagà" esposto al Premio Donatello a Firenze nel 1943, insieme alla " danzatrice del fuoco" e alla " Doccia "; l’Alberto da Giussano", l’"Apprendista incantatore di serpenti", la " morte del cervo", il " Comandante", la "Rondine" e tanti, tanti altri.

Altra attività importantissima dei Orsolini fu quella di MEDAGLISTA, dove raggiunse valori singolari tanto da poterlo classificare fra i primissimi medaglisti italiani, se non il primo dei contemporanei. Assidua fu la sua presenza nei concorsi pubblici

medaglistici nei quali contò 10 vittorie. Partecipò alle mostre dell’arte della medaglia italiane ed estere e fu invitato alle mostre internazionali biennali di Venezia fino al 1930.

La sua serie di medaglie è infinita.

Di grande grazia è un gioiellino di arte sacra: un gruppetto di 5 centimetri, ricavato da un tondello di pero. E’ il vecchio, eterno, avvincente motivo della Maternità Divina. Si ripensi alla tradizione plastica di Jacopo della Quercia, al drammatico Giovanni da Pisa, al dolcissimo Mino da Fiesole, fino a Bernini, Duprè, a Calandra.

Ma ogni artista ha avuto la sua interpretazione o grandiosa o dolente. Qui la posa della Madre, protesa tutta sullo spigolo del plinto ha favorito uno sviluppo di linee, di masse non mai prima pensato. Sul divino grembo insorge la sana vivacità del piccino, un po’ quercesco; girando attorno al gruppo, appare nel curvarsi del corpo materno, nel costringersi, nel volontario annullarsi in quel gesto di mamma, appare la dolce, accorata stanchezza di Colei che si sente già sopraffatta dalla tragedia del Calvario. Tenerezza che soffra, propagata da un corale di linee, di piani sfuggenti nella luce, quasi raccogliesse tutto lo stanco penare della civiltà d’oggi. E’ un interrogare fantasticando sulla doglia che verrà e che la tecnica scorrevole degli ugnetti, delle raspe in mano ad un sapiente ha circonfusa di un’ansia, di una pena rassegnata ed infinita. E’ una Madonna di quel tempo, cioè una Madonna di guerra.