Giorgio Bouchard

ATTUALITA' DI SEGALELLO

Tristi anniversari

Per ogni italiano che ami la sua patria e la voglia dignitosa e progressiva, il 2000 è un anno di tristi anniversari: quattro secoli or sono, il 17 febbraio 1600, a Roma veniva bruciato vivo Giordano Bruno, uno dei più grandi pensatori dell'età moderna. Monaco domenicano divenuto protestante a Ginevra, Bruno aveva finito per trovarsi allo stretto in tutte le confessioni cristiane (con qualche eccezione per la Chiesa d'Inghilterra) e aveva finito per elaborare un sistema di pensiero difficilmente accettabile dai cristiani di allora e di oggi, eppure altamente significativo per tutti i filosofi, anche credenti, dell'età moderna. Perciò noi evangelici ci siamo uniti a tutti coloro i quali hanno voluto ricordare il suo martirio, che è stato anche una straordinaria testimonianza di libertà.

Tre secoli prima di Bruno, il 18 luglio 1300, veniva bruciato a Parma Gherardo Segalello: era un uomo del popolo, un semplice laico privo di cultura teologica formale; eppure era dotato di una straordinaria penetrazione spirituale, e di una vitalissima creatività. Sono perciò contento di partecipare a questa commemorazione indetta dalle autorità civili del luogo che lo vide nascere, con la presenza e la partecipazione dei rappresentanti della cultura e delle chiese locali.

Pochi mesi fa, in un memorabile articolo su "La Stampa" di Torino, Enzo Bianchi, priore della Comunità ecumenica di Bose, ha scritto: contrariamente alle apparenze, la malattia più tipica del nostro tempo non è l'AIDS, ma il morbo di Alzheimer, una malattia che fa perdere la memoria: oggi infatti si tende a perdere la memoria di fatti recenti (come Auschwitz) ma anche la memoria delle cose belle e importanti che sono state fatte nel nostro Paese. Non è solo una malattia italiana, certo: i dirigenti e intellettuali degli Stati Uniti d'America sono allarmati per il fatto che il loro popolo non conosce la propria storia (fatta eccezione per alcuni fatti simbolici e quasi mitici); e sono corsi ai ripari: dovunque (anche nella fredda New York) si possono percorrere oggi i "Trails of History", i sentieri della storia. Ed è interessante vedere i "nuovi americani" (giapponesi, latinos, africani) percorrere questi "sentieri" in cerca delle radici spirituali della democrazia in cui si trovano a vivere. Penso che nell'Italia di oggi sia urgentissimo ricostruire analoghi percorsi della storia: siamo un popolo antico, che ha una storia ricchissima (per non parlare dei tesori d'arte), che merita di essere conosciuta: essa ci permette di scoprire la nostra identità, e poi anche di offrirla, in vista di una inevitabile rielaborazione, a quei "nuovi italiani" che stanno sbarcando più o meno legalmente sulle nostre coste. L'Italia è oggi per loro terra d'accoglienza (e l'Emilia eccelle anche in questo): ma per i loro figli sarà, semplicemente, la terra in cui sono cresciuti, la patria. Quale identità nazionale offriremo loro, anzi costruiremo con loro? Un'identità stinta e incolore, formata di pochi stereotipi, due canzonette e qualche gag televisiva? Oppure, all'estremo opposto, una identità retorica tipo "popolo di santi, di poeti, di eroi e di navigatori" come si diceva qualche anno fa? In altri termini: una storia nazionale tutta vista dalla parte dei vincitori, dei conformisti, degli opportunisti? Bisogna avere il coraggio di narrare anche la storia dei profeti e degli sconfitti: di quelli che non hanno dominato e sfruttato, ma hanno saputo dare sapore alla vita, e possono aiutarci a darlo ancora oggi. Segalello è uno di questi. 

La "seconda ondata" della protesta religiosa medievale

Gherardo Segalello comincia a predicare in piazza quando la più famosa delle eresie medievali (i Catari) è ormai completamente sconfitta, se non eliminata del tutto, e l'altro movimento (i Valdesi) è martellato da una metodica repressione inquisitoriale. In realtà, Ghererado vorrebbe essere solo una specie di nuovo francescano, ma proprio le ripulse ecclesiastiche lo costringono a scendere in piazza: diventerà così, involontariamente (e certo anche grazie al suo geniale discepolo Dolcino) il fondatore di uno dei più importanti movimenti ereticali del medioevo: gli Apostolici dureranno quasi un secolo e mezzo, e lasceranno il segno.

Le notizie che abbiamo su Gherardo (come sui Valdesi) vengono in larga parte dai suoi nemici, anzi, dai suoi persecutori: a volte sono oneste informazioni, a volte sono dure squalifiche. Ad esempio, si è detto che Gherardo fosse un ignorante (dunque presuntuoso in quanto pretendeva di insegnare). In realtà, dietro di lui sta una delle più elevate tradizioni culturali del medioevo: la corrente gioachimita. Gioacchino da Fiore ("il calabrese abate Gioacchino, di profetico spirito dotato", come lo chiama Dante) è una delle menti più alte dell'Occidente cristiano, e ancora oggi esercita su di noi il suo fascino: l'idea che la storia umana si divida in tre età (del Padre, del Figlio e dello Spirito) da una parte mantiene viva l'attesa escatologica, dall'altra prelude al concetto d'una rivelazione progressiva nella storia (perciò nel '700 piacerà a Lessing): contro la concezione della chiesa come istituzione autoritativa garantita dalla sua funzione di amministratrice del "depositum fidei" emerge l'idea d'una "chiesa spirituale", profondamente fedele al messaggio evangelico, ma duttile abbastanza da seguirne il cammino nei tortuosi sentieri della storia.

Non a caso, i francescani spirituali (duramente perseguitati dai papi) sono influenzati dall'afflato gioachimita: e attraverso di loro Gherardo avrà accesso all'eredità spirituale dell'abate calabrese: non a caso, Parma era epicentro dell'influenza gioachimita, che vi ebbe in un omonimo, Gerardo di Borgo San Donnino, il suo rappresentante e il suo martire.

Gherardo Segalello è dunque un predicatore popolare, non autorizzato ma estremamente potente. Il suo "penitenziagite" (latinorum per dire "fate penitenza") non è solo un richiamo alla predicazione di Giovanni Battista ("penitentiam agite", secondo la traduzione della Vulgata) ma è anche un ricordo dell'inizio stesso del ministerio di Gesù (Marco 1/2: "ravvedetevi e credete nell'Evangelo"): nei due casi, il verbo greco che la Vulgata traduce poenitentiam agite è sempre lo stesso: metanoeite, che vuol dire: cambiate mentalità, ravvedetevi, date un nuovo inizio alla vostra vita. Gherardo si presenta, dunque, oggettivamente come un riformatore della cristianità medievale. E come tutti i riformatori, propone il ritorno alle origini, alla purezza primigenia dei tempi del Cristo.

Ma è sorte comune a tutti i riformatori, che quanto più forte è il loro desiderio di tornare all'antico, tanto maggiore è il loro impatto sul presente e sul futuro. Per Gherardo (come per Dolcino e Margherita) l'impatto sul presente fu bloccato dalla condanna e dal rogo. Ma come dobbiamo vedere il suo impatto sul futuro? 

Un precursore?

La sorprendente freschezza del messaggio di Gherardo ha indotto molti a vedere in lui un precursore vuoi della Riforma Protestante, vuoi della Rivoluzione Francese, vuoi dei movimenti socialisti. Effettivamente, molti aspetti della sua personalità e della sua azione indurrebbero a volgere il nostro pensiero in questa direzione: la scoperta d'un rapporto diretto con Dio, la distribuzione dei beni, la grande importanza delle donne nel suo entourage e nel suo movimento, ecc.. Valenti storici giungono così a parlare di "modernità" di Gherardo: ciò starebbe però a significare che la nostra modernità è un adempimento rispetto a questi uomini del passato che erano, semplicemente, degli sfortunati precursori rispetto ai quali noi vivremmo in un tempo più pieno e più realizzato. Ora, si dà il caso che il secolo che s'è appena concluso sia stato pieno di tali disastri, che resta davvero difficile considerarlo come adempimento di alcunché, e nulla ci fa sperare che il secolo XXI sarà più fortunato di noi.

Forse è invece il caso di ricordare il giudizio del grande storico luterano dell'Ottocento, Leopold von Ranke: "Jede Epoche steht unmittelbar zu Gott": ogni epoca storica ha un suo particolare rapporto con Dio (per chi è credente: ogni epoca ha un suo significato specifico, un suo valore). Dunque anche Gherardo va visto nel suo tempo, anche se si deve energicamente affermare che la storia non doveva necessariamente andare così, e che al rogo di Segalello non si deve proprio applicare il troppo celebre detto hegeliano: "tutto ciò che è reale è razionale".

Comunque, più che considerare Segalello un "precursore", preferirei inserirlo in una duplice genealogia spirituale, sia sotto il profilo religioso che sotto il profilo civile.

Sotto il profilo religioso, già tre secoli or sono lo Arnold aveva cercato di scrivere una storia della chiesa cristiana (la celebre Unparteysche Ketzer-und Kirchengeschichte, Storia obbiettiva delle chiese e delle eresie) che del cristianesimo rivalutava i perdenti, quelli che non avevano "fatto la storia" perché erano stati emarginati in vita e in morte dai vincitori, le chiese ufficiali, le chiese del potere. Senza necessariamente accettare tutti i giudizi e i pregiudizi dello Arnold, è però giusto rivalutare quei cristiani minoritari che hanno condotto movimenti di opposizione alla cristianità stabilita, e hanno vissuto fino in fondo il detto dell'Apostolo Paolo: "Dove è lo Spirito del Signore, quivi è la libertà" (II Epistola ai Corinzi, 3/17).

Gherardo è certamente uno di questi: arriveremo così a individuare nella storia cristiana un "filo rosso" che non coincide affatto con la storia delle istituzioni ecclesiali e del loro potere culturale, sociale e politico, ma appartiene piuttosto alla storia della profezia. Così la Scrittura Ebraica ha consacrato uomini e movimenti (Amos, Osea, Geremia) che erano sempre stati all'opposizione, che non avevano buoni rapporti con il potere, ma che alla fine sono stati riconosciuti come fedeli testimoni della Parola di Dio. Agli altri, la Scrittura ha riservato solo fredde menzioni e un terribile giudizio: "fecero ciò che è male agli occhi dell'Eterno". A questi profeti si richiamava Gesù (e ne ha seguito la sorte) e di questi profeti, a ben vedere, è piena la storia del Cristianesimo: solo, bisogna ricordarli, conoscerli e farli conoscere. Dio li conosce già, ma a noi tocca parlarne.

Devo confessare che resto un po' male quando vedo dei sinceri cristiani dichiararsi "figli dei crociati": penso agli orribili massacri compiuti per "liberare il Santo Sepolcro", penso alla scia di risentimento che è rimasta fino ad ora nel mondo arabo-musulmano. E sono anche molto imbarazzato quando sento esaltare la civiltà del medioevo "cristiano" quasi fosse un modello di vita da tener presente, solo perché le cattedrali sono così belle. Il medioevo è anche persecuzione e, soprattutto, il medioevo è anche martirio dei perseguitati: i due Gherardo, Dolcino, Margherita e infiniti altri. Ebbene: sono quei "perseguitati per cagion di giustizia" (Matteo 5/10) che sono il vero medioevo cristiano: non i crociati e gli inquisitori.

In questo campo penso che la mia chiesa (l'Unione delle chiese valdesi e metodiste) abbia una responsabilità particolare: noi siamo l'unica eresia medievale che sia riuscita a sopravvivere, sia pure al prezzo di entrare nel grande alveo del calvinismo e della modernità. Ma il nostro nome rimane, e ci impegna a far rivivere quelle memorie: sarebbe grave se ci occupassimo solo dei martiri valdesi, esercitando così una sorta di imperialismo spirituale sui morti: i martiri valdesi (o assimilabili ai valdesi) sarebbero in certo senso dei "morti di prima classe", sarebbero come degli antenati cinesi dotati di numerosa (!) discendenza e quindi oggetto di tutti i dovuti onori. Tocca invece a noi, evangelici nell'Italia di oggi, collaborare con chiunque intenda por mano al riscatto della memoria, e alla rivendicazione di quelle figure che hanno pagato un prezzo così alto a motivo della loro fedeltà al Vangelo di Gesù.

Come pastore valdese, sono particolarmente fiero del fatto che Gustavo Buratti, l'uomo che ha dedicato la sua vita al riscatto della memoria apostolica e dolciniana, abbia scelto la mia chiesa come sua patria spirituale, e conduca con credenti e laici un'azione di ricupero d'un passato che appartiene a tutti.

Una tradizione di libertà

Ma è anche importante l'altro aspetto della "genealogia spirituale" di cui parlavo prima: quello puramente civile, culturale, politico, "laico" nel miglior senso della parola.

Il popolo italiano ha urgente bisogno di ricostruire una tradizione di libertà, di rileggere la propria storia dal punto di vista della libertà, del rischio e della speranza. Io sono piemontese e mi rallegro che in questo momento si cerchino di rivalutare le tradizioni storiche della mia regione: ma perché si parla tanto di Emanuele Filiberto e così poco degli eretici medievali e delle repubbliche giacobine? Perché alla festa di Fra Dolcino (ogni anno la seconda domenica di settembre) vengono soltanto gli anarchici, gli oppositori sistematici, i minoritari e gli evangelici? Ho dato l'esempio del Piemonte, ma credo che lo stesso valga per tutto il Paese: ci sono tante ricchezze nella storia d'Italia che sono quasi dimenticate; e sono quasi sempre cose che hanno a che fare con la libertà e la giustizia. Duecento anni fa, quando si preparava il Risorgimento, il Sismondi passò vent'anni a scrivere una magistrale Storia delle Repubbliche Italiane del Medioevo, per dimostrare che i Comuni italiani erano stati una delle più grandi manifestazioni di libertà della storia europea, alla pari con la democrazia ateniese. Lo scopo era evidente: dire agli italiani: ciò che i nostri padri hanno saputo fare, lo potete fare anche voi. Lo capì bene Angelo Brofferio, uno degli "estremisti" del Piemonte risorgimentale, il quale pur essendo un laico, rivendicò l'onore delle minoranze religiose e ne difese la libertà.

Non varrebbe la pena che anche noi provassimo a riscrivere la storia d'Italia dal punto di vista della libertà? Allora ci accorgeremmo che proprio i movimenti più emarginati, come gli Apostolici di Segalello, di Dolcino e Margherita, hanno dato una sublime testimonianza di libertà e di giustizia: una cosa che merita di essere raccontata ai nostri figli e ai nostri nipotini. Perché non sono le idee, ma gli esempi che educano i giovani.